«Anche oggi le donne Aymara continuano a resistere insieme al loro popolo contro le perenni aggressioni interne ed esterne. Per lo più contribuiscono alla costruzione di alternative che permettono alla società andina in generale di avanzare verso una democrazia partecipativa e multiculturale. La loro adesione ad associazioni contadine e indigene, infatti, negli ultimi anni non ha fatto che aumentare con le richieste di riconoscimento del proprio lavoro e la valorizzazione della propria cultura; esigono la fine delle discriminazioni che subiscono in quanto donne andine, a causa dei loro usi, del loro modo di vestire e della loro lingua»
L’analisi del ruolo della donna Aymara nella tradizione e nell’attualità, in questa analisi dell’economista venezuelana Mailer Mattié
L’unità complementare
La popolazione Aymara vive nella regione andina, nella zona compresa fra le sponde del lago Titikaka, il nord del Cile e l’Argentina. Si dedica ad attività di pastorizia, agricoltura e artigianato, mantenendo uno stile di vita comunitario. Sono circa due milioni le persone che parlano Aymara, Jaqi Aru, la lingua degli umani. Ci sono circa 1 milione 300 mila Aymara in Bolivia, 300 mila in Perù e 50 mila in Cile, ed appartengono, fra gli altri, ai gruppi etnici dei Qullas, Lupaqas, Qanchis, Carangas e Chichas.
Nella concezione Aymara del mondo, tutti gli aspetti della vita possiedono una componente femminile e una maschile. Essi costituiscono sempre una unità complementare (taqpacha), poiché non sono considerati come elementi in conflitto tra di loro. Nessuno, quindi, può essere escluso o subordinato, perché in tal modo si romperebbe l’equilibrio (tinku) che permette la continuità dell’esistenza. In base a ciò si possono comprendere la mitologia, la produzione agricola e le relazioni sociali in generale degli Aymara. Senza gli opposti complementari, la costruzione Aymara della realtà sarebbe impossibile.
Ad esempio, nel concepimento di un essere umano il sangue mestruale è il componente principale del feto, mentre il seme è il fattore complementare. Nel mito dell’apparizione dell’universo, Wiraqocha, colui che partì verso il mare, creò il Sole (Inti) e la Luna (Quilla), che poi generarono Manco Capac e Mama Oclla, la coppia che fondò Cusco. Anche la concezione spazio/tempo (Pacha) è femminile e maschile. Lo evidenziano i festeggiamenti di Anata, che iniziano ogni anno il 2 febbraio per celebrare i primi raccolti, in particolare di patate. Si tratta di un periodo di piogge, il jullapacha, un tempo femminile, della luna e della fertilità. Il periodo secco, invece, è considerato come un tempo maschile. Anche i periodi di crisi, di trasformazione sociale (il pachakuti) sono femminili e maschili; quello cominciato nel 1992 è femminile, il warma pachakuti. La Terra è Pachamama, la grande divinità femminile che dà sostentamento al popolo Aymara. Possiamo inoltre osservare che gli elementi opposti si completano sempre a vicenda, anche alternandosi.
Jaqi: le persone umane
Nella tradizione Aymara il matrimonio è un rituale di passaggio che rende uguali uomini e donne in quanto jaqi, persone umane. Il livello di endogamia all’interno delle comunità è generalmente molto alto, oltre il 50%, e il padre della sposa deve accettare lo sposo. Sono ritenuti adatti al matrimonio gli uomini fra i 28 e i 31 anni di età, e le donne fra i 24 e i 26 anni. Ci sono però altri requisiti più importanti; l’uomo deve saper arare e costruire il tetto di una casa, la donna deve saper seminare e tessere.
Tuttavia il fatto di sposarsi, di farsi jaqi, ha importanti implicazioni anche in relazione all’intera comunità. Da una parte, il matrimonio determina i diritti di successione sulle terre; dall’altra, stabilisce i doveri della coppia (chachawarmi) nei confronti della comunità. La nuova famiglia, infatti, entra a far parte di un sistema di incarichi attraverso cui in particolar modo l’uomo svolgerà una serie di funzioni annuali, che vanno dall’organizzazione delle feste agricole fino alla carica di capo della comunità (jilaqata). Dal successo dei suoi compiti dipenderà il prestigio di tutta la famiglia. Infatti la coppia percorre insieme questo cammino (thakhi), poiché la donna partecipa alle decisioni del marito e può addirittura sostituirlo in alcune occasioni.
I diversi incarichi inoltre richiedono la ridistribuzione delle eccedenze della produzione familiare, in quanto durante le diverse celebrazioni devono essere assicurati cibo e bevande sufficienti per tutti.
Per quanto riguarda i diritti sulle terre, nelle comunità in cui la tradizione ha subito meno interferenze, uomini e donne ereditano allo stesso modo. In questo modo i terreni della madre possono passare alle figlie tramite il matrimonio, di generazione in generazione. Attualmente, tuttavia, questa non è la prassi predominante. Negli ultimi cinque secoli la proprietà nei territori Aymara ha subito vari processi di cambiamento, compresa l’espropriazione latifondista e le riforme agrarie che hanno concesso i titoli di proprietà prevalentemente agli uomini. Nelle zone Aymara del Perù, ad esempio, attualmente solo il 4% delle donne possiede delle terre, contro il 29% degli uomini.
Tradizionalmente, le figlie ereditavano dalla madre e i figli dal padre, ma questa usanza è ancora viva solo in alcune comunità. Probabilmente questa linea di successione faceva sì che la madre desse anche il proprio cognome alle figlie, e che il padre lo desse invece ai figli. Quel che è certo è che nessuna donna sposata usa il cognome del marito, conservando il proprio, trasmesso dal padre. Indubbiamente, col passare del tempo la proprietà della terra da parte delle donne si è notevolmente ridotta, ciò nonostante è anche possibile che ci siano uomini che non possiedono terre all’interno della propria comunità. Nel caso in cui si sposino al di fuori di essa, dovranno lavorare quella della moglie, senza avere il diritto di ereditarla, poiché la proprietà passerebbe esclusivamente ai figli.
Agricoltrici, educatrici, commercianti e tessitrici
Le responsabilità delle donne Aymara sono molteplici, e per questo sono in possesso di importanti conoscenze e abilità. La famiglia Aymara è un’unità di produzione autosufficiente, che allo stesso tempo contribuisce alla sussistenza dell’intera comunità. Anche quando la terra è di proprietà individuale, il controllo del suo uso è sempre collettivo. Il gruppo familiare cura i propri animali (lama e alpaca) e coltiva i propri appezzamenti, che per la maggior parte sono inseriti nel sistema comunitario dell’aynoka.
Le donne partecipano al lavoro agricolo insieme agli uomini. Tutto quel che riguarda i semi è di loro competenza, e trasmettono le relative conoscenze di generazione in generazione . Il seme dev’essere trattato come un essere vivente e con cure particolari per poter dare, a sua volta, buoni raccolti. Generalmente su uno stesso appezzamento lavorano contemporaneamente due uomini e due donne. Un uomo si occupa dell’aratura e l’altro della concimazione; una donna seleziona le sementi e l’altra le deposita nella terra. Durante il raccolto sono responsabili, sempre insieme, del trasporto dei prodotti (con animali da soma) fino alle case in cui vengono immagazzinati.
Oltre a trasmettere l’antica lingua ai figli, le donne gestiscono il denaro della famiglia e possono disporne senza dover consultare il marito, cosa che egli non è autorizzato a fare. Sono inoltre considerate abili commercianti e di conseguenza sono loro, per lo più, ad andare al mercato a vendere i propri prodotti agricoli e artigianali. D’altro canto, è bene sottolineare il significato e la complessità dei tessuti che elaborano. Essi rappresentano un universo simbolico, in cui figure e segni esprimono i miti e i tratti caratteristici della loro cultura. Il popolo Aymara, insomma, ha nelle proprie donne la forza e la sapienza indispensabili per resistere agli innumerevoli ostacoli e difficoltà che incontra.
Razzismo, discriminazione e diritti umani
Il lungo processo di esclusione subito dai popoli indigeni dell’America Latina ha indubbiamente colpito in modo particolare le donne. Ferite nella loro dignità, hanno inoltre visto ridursi notevolmente la sicurezza e il livello di autonomia di cui godevano nell’organizzazione sociale tradizionale. Tuttavia, lo svilimento cui devono far fronte nel proprio ambiente culturale è niente in confronto alla situazione di emarginazione cui vengono sottoposte dal resto della società.
Anche se spesso il lavoro della donna indigena non è abbastanza riconosciuto all’interno della sua comunità, la sua condizione è ancor meno rispettata da altri gruppi sociali. Benché la discriminazione e il razzismo nei loro confronti siano realtà quotidiane in paesi come il Perù e la Bolivia, lo Stato non li riconosce come tali, e rendendoli invisibili giustifica l’inesistenza di politiche e programmi in favore della convivenza democratica, del rispetto e della dignità.
Questa situazione porta sicuramente gravi conseguenze nelle loro condizioni di vita. Il tema della salute, infatti, è molto esemplificativo. Secondo l’Organizzazione Panamericana della Sanità (OPS), in Sudamerica la mortalità materna è molto più alta fra le donne indigene che in altri settori della popolazione. In Bolivia, ad esempio, le cifre sono molto diverse: a livello nazionale, l’indice è di 390 decessi ogni 100 mila bambini nati vivi, mentre in zone con popolazione prevalentemente indigena il numero di decessi arriva a 496. La stessa situazione si ritrova in Perù, dove la mortalità materna nelle zone urbane è di 265 decessi ogni 100 mila bambini nati vivi, contro i 500 delle comunità indigene. In effetti, nei due paesi si trovano i tassi di mortalità materna più alti dell’America Latina.
Una delle cause fondamentali di questa situazione è sicuramente riconducibile a tutte le barriere culturali che le donne incontrano per accedere ai servizi sanitari, di per sé scarsi e precari. In particolar modo la scarsa stima e addirittura il disprezzo per le loro credenze tradizionali da parte del personale sanitario sono motivo di sfiducia e timore. È esattamente quel che accade alle donne Aymara, che ad esempio ritengono che spogliarsi durante il parto, come ordinano i medici, può portare alla morte. Essendo il corpo aperto e senza nessuna protezione, il freddo potrebbe provocare gravi malattie e l’indebolimento dell’ajayu, la forza della vita. Inoltre, l’indispensabile comunicazione medico-paziente generalmente è inesistente, in quanto nei centri ospedalieri quasi nessuno conosce le lingue locali.
La salute riproduttiva è, in effetti, uno degli aspetti più delicati nell’ambito dei diritti umani, per tutte le donne, senza eccezione. Quanto avvenuto in Perù durante gli anni ’90 dimostra fino a che punto può arrivare questa vulnerabilità. Durante il governo di Fujimori migliaia di donne indigene furono sterilizzate contro la propria volontà, vittime del cosiddetto “Programma Nazionale di Salute Riproduttiva”. Sembra che tale campagna fosse stata finanziata dall’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID), tramite un contratto concesso alla Association for Voluntary Surgical Contraception (AVSC). Le donne, minacciate da funzionari o costrette a cedere al ricatto per ottenere cibo e medicinali, furono sottoposte a interventi chirurgici. Molte morirono, come accadde a María Mamerita Mestanza Chávez nell’aprile del 1998. Dopo essere stati respinti da tutte le istanze legali peruviane, nel 1999 i suoi familiari sporsero denuncia di fronte alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH). Dopo tre anni sono arrivati finalmente ad un accordo, e il governo ha accettato di versare al marito e ai 7 figli la somma di 10 mila dollari a testa, come riparazione per i danni morali subiti. Il Ministero della Sanità ha inoltre ordinato un’indagine, le cui conclusioni indicano che circa 300 mila persone furono sterilizzate contro la propria volontà. Tale studio ha dimostrato che nel periodo 1996-2000 furono effettuati 215 mila interventi di legatura delle tube, e che nello stesso periodo 16 mila uomini subirono una vasectomia, sempre contro la propria volontà. Migliaia di persone, quindi, stanno ancora aspettando che sia fatta giustizia.
Più generalmente, in tutto il mondo le contadine e le indigene costituiscono il gruppo umano maggiormente escluso dai programmi nazionali e internazionali di sviluppo. Sono inoltre loro a subire per lo più il razzismo istituzionalizzato nei loro paesi. Non sono escluse solo dall’accesso ai servizi sanitari, ma anche dall’istruzione, dalla partecipazione sociale e dai processi decisionali. Per strada, nei mercati, nei posti di polizia, sono sempre l’obiettivo principale della violenza, per l’appartenenza a un determinato gruppo etnico, per la loro lingua, il loro modo di vestire, il colore della loro pelle. Nei mezzi di comunicazione la loro immagine e la loro identità sono sempre rappresentate in modo distorto e caricaturale, i loro diritti fondamentali sono sempre e impunemente violati.
Attive nella lotta
Durante la resistenza contro la colonizzazione spagnola, le donne Aymara parteciparono molto attivamente alla lotta, ed ebbero anche ruoli autorevoli e di guida. Simboli di questa presenza furono Bartolina Sisa e Gregoria Apasa, rispettivamente moglie e sorella di Tupak Katari. Insieme arrivarono a guidare un esercito di 40 mila persone contro gli spagnoli nella zona di La Paz durante gli scontri del 1780-83. Katari morì squartato nel novembre 1781 nella località di Peñas. Anche Bartolina Sisa, discendente della stirpe delle Mama Tallas (donne che condividevano l’autorità con gli uomini) morì squartata, il 5 settembre 1782, insieme a molte sue compagne. Dal 1983 in questa data si celebra il Giorno Internazionale della Donna Indigena.
Anche oggi le donne Aymara continuano a resistere insieme al loro popolo contro le perenni aggressioni interne ed esterne. Per lo più contribuiscono alla costruzione di alternative che permettono alla società andina in generale di avanzare verso una democrazia partecipativa e multiculturale. La loro adesione ad associazioni contadine e indigene, infatti, negli ultimi anni non ha fatto che aumentare.
In Bolivia la Federazione di Donne Contadine Bartolina Sisa è un’organizzazione di fondamentale importanza a livello nazionale. È stata fondata a La Paz nel gennaio del 1980, durante il Congresso Nazionale di Donne Contadine organizzato dalla Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia (CSUTCB), cui presero parte duemila delegate. La federazione partecipò pubblicamente, come organizzazione, alle celebrazioni del 1° maggio, e nel 1983 organizzò il suo Secondo Congresso, definendo importanti aspetti correlati all’autonomia e all’identità di genere. Ha inoltre partecipato attivamente ad alcune attività del movimento indigeno boliviano come marce e blocchi di strade, nonché alle proteste contro la privatizzazione dell’acqua a Cochabamba e alla rivolta del 2003 contro la politica ufficiale di gestione del gas e degli idrocarburi, che obbligò alle dimissioni il presidente Sánchez de Losada.
Altrettanto importante è l’Organizzazione di Donne Aymara di Kollasuyu(OMAK). Fra le sue principali attività, iniziate alla fine del 1983, troviamo la creazione di centri per la formazione di donne leader. I suoi obiettivi principali sono la difesa dei diritti umani e la tutela della salute di donne e bambini; l’organizzazione programma inoltre laboratori di alfabetizzazione, medicina e tessitura tradizionale, promuovendo allo stesso tempo la partecipazione delle donne ai processi decisionali in varie sfere. Come organizzazione ha partecipato a vari forum internazionali, comprese le riunioni annuali del Gruppo di Lavoro sui Problemi Indigeni delle Nazioni Unite. È inoltre membro del Coordinamento per le Donne in Bolivia e di molte reti internazionali.
Le donne Aymara, insomma, esigono il riconoscimento del proprio lavoro e la valorizzazione della propria cultura; esigono la fine delle discriminazioni che subiscono in quanto donne andine, a causa dei loro usi, del loro modo di vestire e della loro lingua. Sono fermamente contrarie ai programmi di sterilizzazione forzata simili a quelli effettuati in Perù, in difesa dei propri diritti e della propria libertà. Richiedono, infine, di essere trattate in modo giusto e umano per la strada, nei mercati, nei servizi sanitari, negli uffici pubblici e nei posti di polizia.
Consapevoli dei danni che essi arrecano alla vita delle persone e agli ecosistemi, rifiutano il libero commercio, la perdita della sovranità e i programmi di sviluppo imposti solo in nome degli interessi economici. Esigono quindi la tutela della proprietà collettiva delle conoscenze e una partecipazione diretta per decidere su tutti quei temi che riguardano da vicino le proprie comunità. Infine, si impegnano a difendere e trasmettere ai propri figli i valori che permettono la convivenza sociale in condizioni di pace, giustizia e benessere.
Mailer Mattié, Economista venezuelana, esperta di Antropologia economica e Cooperazione internazionale finalizzata allo sviluppo sostenibile.
FONTE: SELVAS.org Dicembre 2004″